LA PADRONA DI CASA
L’annuncio lo
descriveva come un posto qualsiasi. ‘Due
vani, arredato, terrazza ampia e soleggiata, cantina. Termo autonomo’ . Composi il numero
di telefono. Squillò a lungo, infine qualcuno rispose. “Pronto.” Urlò una
voce vivace e trafelata. “Buon giorno, io,
ehm, chiamo per l’annuncio...” “SCENDI GIU DA LI’.” Mi urlò nell’orecchio,
poi sentii un tonfo. La cornetta cadde urtano qualcosa, chissà perché avevo la
sensazione di essere a penzoloni e di dondolare a testa in giù come immaginavo
che fosse per l’apparecchio dall’altra parte. Ascoltai attentamente.
“TI HO DETTO CHE
NON DEVI SALIRE SULLA FINESTRA, NON TI VOGLIO VEDERE QUA’ IN TORNO, STAMM
I ALLA L A R G A A A.”
Udii una serie di
colpi e un fracasso infernale come di oggetti di metallo o di tegami che
rotolavano. Mi impressionai un poco.
“Mi scusi, ma quel
maledetto gattaccio mi si infila sempre in casa.
IO NON LI SOPPORTO
I GATTI. Lei chiama per l’annuncio? Vuol venire a vivere qui? Lei ha degli
animali? No perché sa, io non li sopporto gli animali!”
Attesi di trovare
un varco in quella pioggia verbale e poi timidamente azzardai una risposta.
“No, no no, io non
ho nessun animale...” venni interrotto bruscamente.
“Bravo! Gli animali devono starsene pei fatti
loro, e noi esseri umani dobbiamo starcene pei nostri. L’anno scorso ho
affittato la casa ad una signorina e poco dopo mi ha portato in casa uno
schifosissimo topo.
Di notte lo
sentivo correre dentro quella stupida ruota e non riuscivo a dormire. E neanche
all’idea che in casa mia ci vive un topo riuscivo a dormire. L’ho dovuta
cacciare, lei e a quell’orribile bestiaccia. Ma come si fa a vivere con una
bestiaccia simile? OHIBO’.”
“Ma
signora, doveva trattarsi di un criceto.”
“ERA
UN TOPO!! O un criceto, che differenza fa? Non fa nessuna differenza. Lei ha
detto che non ha animali? E allora venga qui che le faccio veder la casa!”
Buttò
giù il telefono. Ricomposi il numero.
“Signora,
mi scusi, sono sempre io, non mi ha detto l’indirizzo...”
Si
fece una grassa e acuta risata
“Mi
scusi, non ci faccia caso, sarà l’età. Ha da scrivere?” Urlò
“Via...” Presi nota.
La mia auto quasi
non riuscì a salire quella ripidissima salita. Sopra la collina, un gruppo di
case parevano fare a gara a chi resisteva di più a stare in piedi. Tutte quante
stavano intorno ad un'aia o ad una corte, lastricata con enormi pietre grigie.
Tra le fughe spuntavano piante e erbe varie, svettavano al sole fiere di vivere
in mezzo a quelle antiche case. Lasciai l'auto vicino a un trattore. Più in là
sostavano altre auto. Oggi quello spazio serviva da posteggio.
Mi guardai
intorno, e quel luogo mi raccontò qualcosa del suo passato come farebbe un
nonno. Da lassù vedevo la città e poco più in là il mare. Intorno, le colline,
sembravano i braccioli di una vecchia poltrona dalla quale per centinaia di
anni il piccolo borgo stava seduto a godersi lo spettacolo. E deve essere stata
proprio quella bellezza a dargli la forza di arrivare fino ad oggi. Perché la
bellezza fa venir voglia di vivere e il tempo se ne sta in disparte, non
disturba troppo se si è impegnati a guardare il mondo. Anzi, si siede li vicino
e si ferma anche lui a guardare, così tutto quanto intorno rimane intatto, per
sempre.
Avevo un
appuntamento, dovevo andare. Ero un poco in ansia di incontrare quella signora.
Passai sotto una volta e mi ritrovai in un'altra corte, più piccola, sulla
quale si affacciavano alcune porte.
Qualcuna sembrava
l'ingresso di una cantina, le altre erano gli ingressi delle case. Ero
impegnato a leggere i nomi sui campanelli quando dietro di me si spalancò una
porta.
“Buon giorno, lei deve essere il
signor...Il signor?”
“Buon giorno, mi chiamo Walter,
lei è la signora Alice?”
“Si sono io.” Mi squadrò tutto
quanto senza tentare minimamente di non farsene accorgere, mi mise in
imbarazzo. Poi come se fossi io la causa di quella pausa disse.
“Avanti, coraggio, cosa fa li
impalato, venga, le faccio vedere la casa.”
Mi mossi impacciato e andai verso
di lei, che sparì in casa e ne riuscì subito con in mano una chiave appesa ad
un enorme portachiavi di peluche.
“Venga, da questa parte.” Prese
su per una scala di pietra che saliva di fianco alla porta di casa sua. Io le
andai dietro. La signora Alice non era come me l'aspettavo, Avrà avuto una
cinquantina d'anni, portava un modernissimo paio di jeans attillatissimi e una
magliettina corta in vita, aveva i capelli rossi raccolti in un ciuffo tenuto
da un mollettone maculato. Ai piedi aveva un paio di infradito dalla
spropositata zeppa di gomma color azzurro. Era una figura alquanto singolare e
mi sculettava davanti in un'andatura sensuale e vagamente schizzata.
La scala finiva in una terrazza
molto ampia dove c'era una porta sola. L'aprì
e la spalancò rimanendo sulla soglia invitandomi a precederla in casa.
L'appartamento era in ordine, pulito e profumato, era arredato in stile semplice,
da campagna. Era molto accogliente e mi sentii subito a mio agio. La signora
Alice mi passò vicino e andò verso l'altra stanza.
“Qui c'è la camera da letto, non
è molto grande ma per lei andrà benissimo.”
......CONTINUA...
COMMESSE
La strada lentamente si stava
ripopolando, era quasi l’ora della riapertura pomeridiana dei negozi e le
commesse si incontravano nei caffè poco prima di iniziare il lavoro.
Io stavo seduto ad un tavolino
esterno in uno dei tanti locali di questa magnifica via del centro che ospitava
molte fra le più belle boutique della città e mi godevo il via vai di queste
bellissime ragazze.
È ovvio che uno spettacolo simile
si verifichi tutti i giorni, anche due volte al giorno forse, però al mattino
deve essere meno sensuale del pomeriggio, perché è più frenetico, le ragazze
sono assonnate e in ritardo; a quest’ora invece sono splendide, calme e
sorridenti, sono sveglie e la loro femminilità viene sparsa per la via come un profumo
e sembra quasi che voglia sedurre ogni cosa.
Non c’è dubbio, in questo
frangente sono consapevoli protagoniste.
Ero quasi all’ultimo sorso del
mio digestivo, il quotidiano era mal riposto sul tavolino; del resto la mia
attenzione era rivolta altrove, dove i miei sensi coglievano la vita:
l‘inconfondibile suono dei tacchi sul marciapiede, la scia di profumo che le
segue, la visione di queste creature che vanno e tu vorresti toccarle ma la
loro stessa bellezza te le allontana come se fossero divinità irraggiungibili.
Due morette si sedettero al
tavolino alla mia sinistra. La più alta aveva un caschetto anni Trenta, il
nasino all’insù, e i suoi seni, dentro la camicetta, erano grandi e belli.
Sembravano veri perché avevano quella naturale tendenza al basso che ricorda le
belle mammelle di una volta, così pesanti, cosi sexy e rilassanti.
L’amica aveva tratti ispanici,
carnagione scura e capelli che ricadevano sulle spalle lucidissimi, lisci sulla
nuca e molto mossi sulle punte.
È la
pettinatura che più mi piace e mi sono sempre chiesto se è naturale o se
richiede del lavoro. Era meno appariscente dell’amica, ma molto carina nelle
sue forme precise e delicate e sembrava avere qualche anno in più dell’altra.
Ordinarono due caffè, io
approfittai della cameriera per ordinare un altro digestivo; riaprii il
giornale ma in breve mi accorsi che le ragazze avevano cose molto interessanti
da dirsi. Tra un titolo di cronaca e la pagina sportiva, iniziai a captare il
contenuto della loro conversazione e a poco a poco mi ritrovai letteralmente ad
origliare.
“Ti stavo dicendo” disse la tipa
con il caschetto “che ero con Oreste a cena da sua madre e appena seduti a
tavola mi arriva un messaggio, apro il telefono tranquilla, pensavo fosse mia
sorella che voleva sapere come erano andate le analisi, e invece, cazzo! Era Rufo.
Non lo sentivo da tre o quattro settimane.”
Aprì il telefono e con il pollice
esperto cercò la cartella dei messaggi e iniziò a leggerlo all’amica.
“Senti cosa mi scrive: Ciao
notevolissima femmina, ti ho visto passare oggi, in auto, ma lo sai che ci
stai da dieci su quella Smart. Sei sempre al top. Più tardi vado al Golden
perché non ti fai un giro e ci beviamo una cosa?”
Le ragazze si scambiarono
un’occhiata densa di contenuti, come fossero state collegate ad una rete
wireless, e credo che riuscirono a trasmettersi molte informazioni.
Poi Caschettino continuò:
“Meno male che come al solito Oreste non si accorge di un cazzo. Gli dico che è
mia sorella che vuol saper delle analisi e così rispondo a Rufo, lì a tavola,
seduta con mia suocera, ma ti rendi conto?”
“E cosa gli hai scritto?” le
chiese l’altra, quella dalla carnagione più scura.
“Gli ho risposto che mi ha fatto
piacere il suo invito ma che ero un po’ incasinata e che se fossi riuscita a
liberarmi lo avrei raggiunto.”
“COSAA?” tuonò Spagnolina “Hai passato il pomeriggio
con Oreste a fare la lista di nozze e quando sei a cena con sua madre non solo
rispondi a quell’altro, ma gli dici pure che se ce la fai lo raggiungi?! Ma ti
stai per sposare o cosa?”
“Appunto, mi sto per
sposare, tecnicamente sono ancora nubile…”
E si riguardarono negli occhi con
la stessa intensità di poco prima ma questa volta Spagnolina non nascose un certo disappunto misto a un pizzico di
ironica malizia.
Dalla posizione in cui stavamo
seduti ai nostri tavolini, ci potevamo vedere in volto tutti e tre anche se un
po’ di profilo; per quanto mi riguarda, nonostante mi sforzassi di rendermi
invisibile e soprattutto cercassi di ascoltare senza guardarle, cominciavo ad essere
deci- samente coinvolto, come uno spettatore a teatro.
Le ragazze, invece, non davano
minimamente la sensazione di preoccuparsi della mia presenza, e non facevano
niente per proteggere la loro privacy. La cosa iniziò ad incuriosirmi ma lì per
lì non ci feci caso.
“La cena era una noia mortale”
continuò Caschettino “mia suocera continuava
a rompere su come avremmo dovuto organizzare tutto, sugli invitati e un sacco
di altre stronzate, cominciavo proprio a non sopportarla più. Meno male che il
mio Orestino, che un po’ la sta a sentire ma poi si rompe anche lui, gli è
saltato in mente di portarmi a casa sua. Io non ne avevo molta voglia, forse
perché iniziavo a pregustare di vedere Rufo, ma almeno siamo venuti via di lì…”
L’attenzione di Spagnolina aumentò, io ormai usavo il
giornale per nascondermi, ero sicuro che avrei ascoltato un racconto un tantino
piccante.
A questo punto l’amica le chiede:
“Quindi sei andata da Oreste, e Rufo? Lui allora quando l’hai visto?”
“Aspetta! Oreste non l’ha mai
fatta una cosa così: mi trovo bene con lui... a letto, voglio dire… ma lo sai
com’è, è tutto precisino, quando lo facciamo vuole che tutto sia perfetto, le
lenzuola, la luce, la musica, i preservativi, lo champagne in frigo… tre volte
alla settimana perché gli altri giorni ha il calcetto. Sono sicura che le
nostre scopate le mette in agenda insieme ai suoi appuntamenti di lavoro...”
“Aspetta aspetta, stiamo parlando
di Oreste vero? Il tuo futuro marito, non è così?”
Caschettino non colse bene il sarcasmo
dell’amica che in quella domanda, volendo, avrebbe potuto introdurre un
argomento da analisi su di un lettino. Io stesso, che mi sforzo sempre di non
giudicare mai e quando lo faccio mi mordo la lingua, notai molto bene quel
sarcasmo e anche se non potevo condividerlo con Spagnolina sono sicuro che anche lei pensava della sua amica che
era seduta su di un sacchetto pieno di merda e di esplosivo.
Dopotutto non erano affari miei,
certo, ma la parte interessante doveva ancora arrivare.
“Sì lo so, sono una stronza, non
dovrei parlare così, ma se non lo faccio con te con chi posso farlo? Stai a
sentire, insomma quella sera gli è preso qualcosa che non avrei mai detto, sono
sicura che del messaggio non ha sospettato niente, anche perché al limite si
incazzava.
Credo invece che abbia sentito,
non so con quali sensi, l’odore della mia eccitazione.
L’idea di rivedere Rufo
mi aveva messo addosso un fuoco e mi sa che lui l’ha sentito, hai capito? Ha
sentito qualcosa ne sono sicura. Infatti ha iniziato a toccarmi le cosce sotto
al tavolo lì con sua madre che non la smetteva di parlare, non l’aveva mai
fatto, sono rimasta sconvolta.”
“E così siete venuti via e siete
andati a casa sua, e avete scopato?”
.....CONTINUA ...
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